Una foto, oggi difficilmente realizzabile. Troppo pericoloso: guerre locali, terrorismo. Negli anni Ottanta, del secolo passato, potevi frequentare in sicurezza l’Africa Subsahariana. Siamo a Dijenné, Mali. Ci arrivai dal Sahara, lungo la Bidon Cinq. Una faticosa pista poco frequentata. La città sorge sulle rive del fiume Bani e ha alle spalle un grande passato di splendore e decadenza; felici periodi di prosperi traffici e angosciosi anni di guerre. Intorno all’anno mille, dicono le storie, fu convertita all’Islam. Possiamo immaginare come.
Nella piazza principale si erge la Moschea, la più grande dell’Africa, interamente fatta con un impasto di fango, sabbia, paglia. Il tipico materiale da costruzione di gran parte dell’Africa. Ogni lunedì, ai suoi piedi, si tiene un frequentatissimo mercato. Peulh, Bozo, Dogon: trovi gente di tutte le etnie della regione, nei loro differenti costumi. Stendono la mercanzia in terra e, accoccolati sotto il sole, attendono il compratore.
I Peulh li distingui subito. Le donne portano i caratteristici, enormi, orecchini in oro. La forma è sempre uguale, varia la dimensione. Questa dipende dalla ricchezza della famiglia, della quale rappresentano anche il capitale, dote trasmessa di madre in figlia. Sono realizzati da sapienti artigiani locali, secondo antiche tecniche. Troppo belli per non essere fotografati.
Rimasi al mercato tutto il giorno. La prima difficoltà che deve superare il fotografo, in questi casi, è farsi accettare, diventare invisibile. Diventare un oggetto abituale del paesaggio. Non è sempre facile. In modo particolare quando sei l’unico di pelle bianca in mezzo a centinaia di persone di pelle nera. E hai una macchina fotografica al collo.
Impiegai le ore del mattino a gironzolare tra le merci esposte, scambiando qualche parola, senza mettere mano alla fotocamera. I soggetti più interessanti e significativi erano le donne Peulh, con i loro orecchini scintillanti al sole. Non erano folklore turistico, ma testimonianze etnografiche.
All’epoca usavo un corredo Pentax. Era tra i primi ad essere in qualche modo tropicalizzato. E aveva un magnifico teleobiettivo 300mm F4.0, molto leggero, che potevi usare senza eccessive difficoltà a mano libera. Naturalmente di stabilizzazione e autofocus non se ne parlava. Fu proprio quel 300mm che mi permise di documentare gli orecchini Peulh. Per quanto mi avessero accettato come innocuo, non potevo certo avvicinarmi a trenta centimetri dalle orecchie di quelle signore con un grandangolare. Mi sedetti su un accidentale rialzo di terra, a qualche metro dai miei soggetti, accoccolati dietro le loro mercanzie. E iniziai a fotografare con lenta pigrizia, sfoggiando i miei sorrisi più accattivanti.
Difficoltà tecniche? Qualche goccia di sudore che, a volte, mi colava negli occhi. L’attrezzatura già l’ho detta, manca la pellicola: Kodachrome 64. La Kodachrome era un’ottima pellicola, ma la sua latitudine di posa era molto ridotta. Il contrasto tra il nero della pelle, i colori del vestito e lo splendore dell’orecchino andava oltre. Esposi per l’orecchino, il soggetto più importante.
Edo Prando