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Robert Capa è il simbolo del reportage. Quello duro, quello che il fotografo è lì per testimoniare. Cavaliere solitario dell’informazione. Demiurgo della notizia.

Il 27 novembre del 1932 era a Copenhagen per un comizio di Trotsky; nel settembre del ’36 sul fronte di Cordova, dove riprese il Miliziano; nel ’38 in Cina a coprire un’altra guerra; nel ’43 a seguire lo sbarco degli USA in Sicilia; il 6 giugno del ’44 a Omaha Beach a documentare il Giorno più Lungo; nel ’50 ad Haifa, nei campi profughi degli ebrei. Il 25 maggio del 1954 saltò su una mina, sulla strada da Namdinh a Thaibinh, in Indocina.

Robert Capa, photoreporter per antonomasia, ucciso dagli smartphone?
Robert Capa ripreso da Gerda Taro durante la Guerra Civile Spagnola nel maggio del 1937. La professione del photoreporter oggi, uccisa dagli smartphone?

All’epoca i fotografi erano gli occhi di tutti noi gente comune. Aspettavamo l’uscita dei giornali per guardare gli avvenimenti accaduti nel mondo. Ed era gara tra i giornali per dare, primi, la notizia. Primi significava, se tutto andava bene, il giorno dopo l’accaduto per i quotidiani, una settimana per i settimanali.

Pochi minuti dopo il crollo del ponte di Genova in rete c’erano già i video di chi ne era stato testimone, girati addirittura dai primi soccorritori. Immagini confuse, mosse e tremolanti ma testimonianza immediata. Quella che abbiamo sempre cercato, anche se non lo sapevamo.

Le foto di Omaha Beach sono mosse e sfocate come quelle scattate dai telefonini di Genova. I mezzi dell’epoca non consentivano di più. Solamente dopo è stata attribuita loro una valenza estetica. Ma il loro scopo non era essere appese in una mostra; pubblicate nelle pagine di un libro.

Capa, reporter per antonomasia, è morto. Ucciso non da una mina tra le risaie del lontano oriente, ma da un killer che abbiamo in tasca.

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