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Mettete bambole nelle vostre borse, fotografiche

Quando iniziai questo mestiere esistevano ancora cronisti di nera che portavano sempre con sé un candido fazzoletto, fresco di bucato. Lo passavano alla madre in lacrime del figlio morto non per pietà, ma per facilitare il compito del fotografo. In foto veniva meglio del loro, oramai strizzato e ridotto a uno straccetto dopo ore di pianto.

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Nelle foto di guerre e disastri, non manca mai il nipote di quell’ideale fazzoletto ad usum delphini. Cioè di chi le guarderà. Sono passaporti dalle copertine miracolosamente intonse, dopo un disastro aereo che ha visto andare a fuoco i loro proprietari. Sono scarpette da neonato. Sono bambole che sorridono tristemente da montagne di polverosi calcinacci. Linde e pulite come appena uscite dal negozio. Il fazzoletto del sopracitato cronista, tuttavia, aveva un pregio: stava in tasca. Potevi averne appresso una scorta, in caso di prolungate disgrazie. Le bambole, per quanto piccole, occupano spazio. Per questo, di frequente, vediamo la stessa bambola prima su un cumulo di macerie, poi su di un altro e un altro ancora. I pupi si muovono. Il puparo resta nell’ombra. Rimpiangiamo quell’innocente tantinello di Photoshop. Quello che fa inarcare di sdegno il sopracciglio dei soloni in servizio permanente effettivo presso premi e premiuncoli di fotogiornalismo. Mettete bambole nelle vostre borse fotografiche. E’ un consiglio che non ascolterete in nessuna lectio magistralis. Cronista alle primissime armi, ebbi la sorte di intervistare l’indimenticabile Milly. Si fa, ma non si dice, era un suo famoso refrain.

 

 

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